I figli che non vogliono fare i compiti? “Arrangiati, la scuola è il tuo lavoro”

Sono reduce da cinque giorni di vacanza, perché qui a Pescia, in occasione del Carnevalino, è tradizione fare ponte, e ne ho approfittato per portare i miei figli in montagna. Insieme ai bagagli avevo con me tre pacchi di compiti da correggere; e un po’ alla volta, coi ritmi meno serrati rispetto a quelli delle settimane lavorative normali, li ho corretti tutti. Non ho vissuto le due ore al giorno di lavoro come una fastidiosa punizione, e non vedevo in questo modo nemmeno le lezioni a casa che gli insegnanti ci davano nelle vacanze quando ero studente.

In parte dipende da come si affronta la scuola; sembrerà un’eresia, ma a qualcuno studiare piace. Che si tratti di esercizi di inglese o di matematica, di una versione di latino o greco, o più semplicemente di leggere un bel romanzo durante le vacanze di Natale (io per esempio da anni in quelle estive do ai miei studenti solo libri da leggere, e per il resto dico loro di viaggiare e fare più esperienze di vita possibili), si parte sempre dal presupposto che i compiti a casa siano un peso, un fardello noioso che peggiora la qualità delle vacanze.

Se provassimo una volta tanto a rovesciare la prospettiva? Se iniziassimo a considerare i compiti a casa come un aspetto utile, e qualche volta perfino divertente, del proprio percorso scolastico?
No, eh.
Ho capito, non vi convinco.

Magari ce la potrei fare con i bambini delle elementari, che nelle vacanze si esercitano su libri coloratissimi impostati più come passatempi che manuali, ma non certo con gli adolescenti che nella maggior parte dei casi a scuola ci vanno perché ce li costringono i genitori…
Bisogna forse rivolgersi agli adulti e provare un’altra strada.
Che potrebbe essere quella di insistere sul senso del dovere, che tornerà utile ai figli tante altre volte nel futuro.

I compiti si fanno perché vanno fatti; perché sono una parte fondamentale del percorso di apprendimento, servono a fissare concetti, elaborare contenuti, impratichirsi con gli argomenti. Specialmente oggi che si tende a delegare l’impegno che ci vuole a studiare alla tecnologia, o trovare scorciatoie attraverso l’intelligenza artificiale, bisogna secondo me recuperare l’idea che lo studio è fatica, ma è soltanto grazie a quella fatica che si impara davvero qualcosa. E soprattutto ho sempre pensato che il ruolo del genitore non debba essere quello di sedersi accanto ai figli per aiutarli a studiare, ma quello di supportarli a distanza, senza intromettersi, sia quando sbagliano che quando fanno bene.

Lo studio è uno strumento di crescita eccezionale; se un ragazzo viene aiutato nel modo sbagliato da un adulto – il che significa che l’adulto fa le cose al posto suo – non diventerà mai autonomo, e la prima volta che quell’aiuto gli verrà a mancare per qualche motivo è molto probabile che un insuccesso verrà vissuto come fallimento. Invece un insuccesso scolastico non è mai né un fallimento né una punizione, ma il gradino da cui ripartire per far meglio la volta successiva.

I figli vanno lasciati liberi anche di sbagliare; è in quel momento che mostrano di che stoffa sono fatti, e magari essere studenti finisce di essere soltanto un dovere imposto e diventa un piacere. A quel punto diventeranno un piacere perfino i compiti a casa.