Carmelo Miceli: il suo Lecce e i suoi compianti compagni Lorusso e Pezzella. Intervista di Carlo Pellegrini

Oggi è ormai raro poter ammirare il comportamento di calciatori che sappiano mantenere la fedeltà alla loro squadra per vari anni consecutivi come avveniva un tempo.
Nel secolo scorso furono davvero numerosi i calciatori che indossarono la stessa maglia per diverse annate. Addirittura per qualcuno la militanza in una squadra fu permanente per l’intera esperienza calcistica.
Nel Lecce degli anni ’70 e ’80, per esempio, il noto difensore, Carmelo Miceli, mantenne inalterata la sua presenza nella squadra salentina per undici stagioni consecutive. Ancora oggi egli può vantare questo legame importante.

D. Miceli, quando esordì ufficialmente e quando terminò con il calcio giocato?
R. «Ho esordito ufficialmente giocando nel Lecce durante il campionato 1977/78 quando l’allenatore era Lamberto Giorgis. Questi mi fece debuttare nella partita Lecce-Modena. Ricordo che scesi in campo a partita iniziata e che vincemmo 2-0. Ho terminato vestendo la maglia del Nola in serie C1 nel campionato 1990/91. Al Nola giunsi a seguito di una scelta un po’ particolare. Volli dare una mano al mio vecchio allenatore Pietro Santin, che mi aveva lanciato nel calcio professionistico e che si trovava in difficoltà. Avevo lasciato il Catanzaro e non avevo fatto la preparazione. Era il primo anno che non facevo la preparazione pre-campionato, quindi, quando mi chiamò mister Santin, perché da Catanzaro dovevo andare a giocare a Cosenza, giocai due mesi circa a Nola. Di professionisti ce n’erano pochi e niente, quindi, non giocando mai in serie C1, preferii lasciare».

D. Come giunse nel Lecce?
R. «A Lecce mi portò il direttore sportivo Domenico Cataldo. Lui mi seguì nella rappresentativa Calabria degli allievi. Disputammo un torneo prima a Taormina, dove ci qualificammo per la fase finale, e poi andammo a Piacenza dove inaugurammo il campo. Cataldo mi vide là. A Piacenza andai con un paio di scarpe tutte consumate, perché la società dove io giocavo aveva preferito dare le mie scarpe a un giocatore della prima squadra piuttosto che darle a me. Quindi partii con queste scarpe che avevo, perché a quell’epoca non c’era possibilità di comprarne quando uno voleva e non c’era tutto questo benessere che c’è adesso. Quindi, con queste scarpe in piedi, inaugurammo il campo di Piacenza, che era nuovo. Non ricordo con chi giocavamo se con l’Emilia Romagna o con la Toscana. In quella partita mi vide sia Cataldo che Giorgio Vitale, allora direttore sportivo del Monza. Si disputò una grande partita nel primo tempo e durante il secondo tempo si mise a piovere e scivolavamo sul campo… Quando dal campo andammo all’albergo, all’interno del pullman sentivo parlare i dirigenti della Calabria che dicevano: “Si è messo in evidenza Miceli”. Sul pullman c’era Vitali, che poi mi portò al Monza e che riuscì a strapparmi alle lusinghe di Cataldo che mi voleva comprare con un bel paio di scarpe, proprio perchè avevo giocato con quelle consumate. Ricordo che Cataldo, all’epoca direttore della Reggina, mi disse: “Hai visto che bel paio di scarpe che ha Pellé? Pure tu le puoi avere”. Ed io gli risposi: “Purtroppo direttore dovete parlare con mio padre, non dovete parlare con me”. E finì lì. Giocai nella primavera del Monza per un anno e rischiai di debuttare pure in prima squadra. Cataldo, che mi inseguiva, riuscì poi a portarmi in comproprietà nel Lecce».

D. Con questa squadra detiene dei record particolari, vero?
R. «Ho disputato delle belle partite diciamo, oltre trecento.
Dovrei essere il secondo o il terzo calciatore che ha disputato più partite nella storia del Lecce».

D. Qual è l’episodio della sua esperienza calcistica che non potrà mai dimenticare?
R. «È una bella domanda… Certamente la promozione in Serie A al termine del campionato 1984-85. Disputai 38 partite e segnai tre gol, praticamente giocai tutte le partite di quel campionato vincente.
Penso di potermi definire un protagonista serio di quella promozione. Poi aver giocato contro giocatori come Maradona, Platini, Rumenigge… sono cose belle che non si possono dimenticare. Poi anche di aver disputato quella partita Roma-Lecce il 20 aprile 1986, la penultima di quel campionato, in cui indossavo la fascia da capitano. Noi eravamo già retrocessi in serie B. La Roma era convinta di vincere facilmente. Dopo cinque minuti perdevamo già 1-0 e dissi: “Chissà quanti goal ci faranno…” E poi invece riuscimmo a pareggiare subito con un goal di Alberto Chiara. Poi realizzò due goal Barbas che portò il risultato sul 3 a 1 a nostro favore. La Roma accorciò le distanze con un goal di Pruzzo. Vincemmo 3-2. Ricordo che si infortunò il portiere Ciucci e fu sostituito da Negretti. Giocammo una bella partita, ma, secondo me, fu più un demerito della Roma che un merito nostro… Ricordo che sullo 0-0, il portiere Tancredi fece una grande parata su un mio colpo di testa dal cros del calcio d’angolo. Non ho capito perché non c’era una grande armonia nella Roma, devo dire la verità».

D. A distanza di oltre quarant’anni, quali emozioni avverte nel ricordare i suoi compagni di squadra Ciro Pezzella e Michele Lorusso?
R. «Per me specialmente fu una brutta esperienza perché viaggiavo sempre assieme a Pezzella. Quel 2 dicembre 1983 Michele si aggiunse all’ultimo momento a noi. Generalmente io e Pezzella per recarci a giocare le partite fuori casa prendevamo sempre il treno per il timore dell’aereo, e quindi viaggiamo in treno. Due settimane prima che succedesse l’incidente a Ciro e a Michele, io e Ciro avevamo rischiato di farne un altro e ricordo che gli dissi: “Non possiamo venire più con la macchina a Bari”. Alla stazione centrale di Bari prendevamo il treno per recarci nelle città dove disputavamo i nostri incontri in trasferta.

Quando giunse la partita con il Varese io acquistai i biglietti e dovevo partire con Ciro da Lecce, poi all’ultimo momento si aggiunse anche Michele, perchè il lunedì o il martedì precedenti era caduto un aereo in Francia o in Spagna, non mi ricordo adesso. Ciro e Michele decisero di arrivare fino a Bari con la macchina e con loro c’erano pure il suocero e il cognato di Pezzella. Ciro guidava e Michele sedeva di dietro. Dice che ci fu una macchina a Mola di Bari che sbandò sbattendo nella parte dove erano seduti loro due. Quando giunsi a Bari per partire per Varese e non li vidi salire, mi dicevo: “Ma che sarà successo?”. Tra l’altro era presente un amico che mi disse: “Non ti preoccupare saranno più avanti o avranno ritardato”. Non vedendoli arrivare decisi di partire. Ci pensai durante la notte. Quando scesi a Milano, per andare giocare a Varese presi un taxi e appena salito il taxista mi disse: “Ha visto la tragedia che c’è stata vicino Roma...” Forse non aveva capito bene il luogo dell’accaduto, ma quando giunsi a Varese capii subito che era successo qualcosa di grave. Io Ciro viaggiavamo sempre assieme perchè, come ripeto, avevamo un po’ di timore di salire sull’aereo.
Ciro e Michele erano due bravissimi ragazzi e c’era una grande armonia tra noi. Ci volevamo bene. Li ricordo con tanto affetto. Michele mi aveva cresciuto perché lui era più anziano sia di me che di Ciro. Stavo sempre con Michele e viaggiavo sempre con lui. Era veramente un amico.
Due anni più tardi accadde un’altra tragedia: la morte della figlia di Pezzella. Avevamo conquistato la serie A ed eravamo alla fine della primavera del 1985. Facemmo festa. Quando eravamo sul palco dei festeggiamenti giunse la dolorosa notizia della morte di questa bambina. La moglie di Pezzella, mentre ritornava dal mare con la figlia, sbandò con l’auto, fece quell’incidente nel quale perse la vita appunto la bambina. Dalla gioia per aver conquistato la serie A in un secondo passammo al dolore…».

D. Per quali ragioni, dopo dieci anni consecutivi nel Lecce si trasferì nell’Ascoli?
R. «Non fu una scelta mia, ma una scelta più della società perché era stata approvata la legge che svincolava i calciatori, quindi io fui svincolato. Io non prendevo l’aereo e l’allenatore di quel tempo, Carletto Mazzone, disse: “Chi non vola va via!” Così la società decise di cedermi all’Ascoli. Io non sarei mai andato via da Lecce. Nell’Ascoli mi trovai bene. L’allenatore Ilario Castagner mi consegnò subito la fascia da capitano perché ero un calciatore tra quelli più rappresentativi. Avevo iniziato un grande ritiro pre campionato, ma poi ebbi la sfortuna di infortunarmi a fine ritiro durante una partita amichevole allo stadio “Renato Curi” di Perugia, proprio nel posto in cui morì il giovane Renato Curi. Ricordo che presi una pallonata nell’occhio e che non mi permise di vedere perché si creò l’ematoma. Rimasi fermo per un paio di mesi. Riuscii a recuperare con tanti sacrifici. Al termine di quel campionato, 1987/88, la squadra raggiunse la salvezza alla quale contribuii anch’io con un goal realizzato a Pisa. Nel settembre successivo passai al Catanzaro».

D. Come valuta il calcio di oggi? E cosa la preoccupa?
R. «Il calcio di oggi diciamo che non mi piace tanto. Il calcio mi interessava fino a quando non sono subentrati gli sponsor e fino a quando i giocatori sono stati proprietà delle società. Poi c’è stato quel cambiamento degli svincoli, che ha consentito anche l’avvento dei procuratori. Insomma è cambiato il sistema e anche la meritocrazia è andata a farsi fottere… Una volta il calcio era diverso: se valevi andavi avanti.
Oggi mi sembra un calcio, ripeto, diverso perché ci sono anche troppi privilegi perfino nelle scuole calcio. Mi preoccupa questo: il calcio è cambiato fino alle sue radici, una volta noi scuola calcio non ne facevamo, giocavamo in mezzo alla strada e poi nei settori giovanili si lavorava in un certo modo. Nei settori giovanili se non c’è una preparazione fondante, si lavora all’inverso. È come costruire un palazzo, se lo fai in malo modo, il palazzo dopo un anno crolla. A mio avviso non si creano le basi giuste per poter creare dei giocatori bravi che potrebbero essere utili un giorno alla nostra Nazionale. Poi con l’avvento dei calciatori stranieri si sono ridotte le possibilità di inserimento per i nostri calciatori».