A scrivere varie pagine della storia del calcio italiano degli anni Ottanta ha contribuito anche Domenico Volpati.
Infatti dal 1979 al 1988 ha vestito le maglie di squadre importanti come Torino, Brescia e Verona.
La sua militanza nella squadra veronese gli ha consentito di essere considerato ancora oggi tra i protagonisti di quel magico collettivo calcistico che giunse a vincere lo scudetto.
D. Volpati, durante i primi anni della sua carriera immaginava che un giorno avrebbe giocato in serie A?
R. «Non credo proprio, anche perché, per me, erano tutti più buoni o bravi di me… Non avevo questa ambizione. Io vivevo il calcio venendo da un oratorio salesiano. Lo vivevo come piacere e per l’amicizia, per trascorre momenti lieti con gli amici; quindi lo vivevo in questo senso. Molta passione e allora nessuno pensava ai soldi e su questo discorso posso anche dubitare; adesso è cambiato molto, però devo dire che io ho vissuto di passione insomma. Ero un “selvaggio” che saltava fuori praticamente da un liceo e da un oratorio salesiano».
D. Come avvenne il suo esordio nella massima serie?
R. «Il mio esordio nella massima serie avvenne quando ero già in tarda età, perché dobbiamo pensare che allora nel Torino, quando ho esordito nel 1979, avevo già ventotto anni e quindi adesso è quasi difficile e impensabile; allora ero già uno che era arrivato alla serie A tardi. Effettivamente sono state due stagioni a Torino un po’ sofferte per due motivi, (anche se ho sempre giocato e ho ottenuto ottimi risultati): perché non ero pronto per la massima serie o comunque non mi sentivo adeguato; e in secondo luogo perché c’era una squadra che il massimo l’aveva già dato nel 1975/76 con lo conquista dello scudetto dei 51 punti. Dopo ogni anno hanno incominciato a levare i remi dalla barca e curare il proprio orticello».
D. Il suo nome è legato soprattutto al Verona. Può ricordare brevemente la sua permanenza nella squadra scaligera?
R. «A Verona sono stati gli anni del trionfo e quindi sono stati sei anni in cui c’è stata questa simbiosi con la città e con i suoi abitanti; e questo affetto rimane ancora immutato dopo 40 anni perché ci sono stati risultati importanti. Abbiamo svegliato una città dal torpore e l’abbiamo portata in giro per l’Europa a giocare la Coppa dei Campioni, a giocare la Coppa UEFA. In quella città ho abitato otto anni e vi ho giocato sei anni e sono stati sei anni, a parte anche quello dello scudetto, trionfali dove si sono visti buon calcio e risultati».
D. Quali emozioni conserva della conquista dello scudetto con il Verona allenato da Osvaldo Bagnoli al termine del campionato 1984/85?
R. «Diciamo che quell’anno il Verona ha concluso una stagione straordinaria. Nello spogliatoio di Bergamo, quando si vinse il campionato matematicamente, io dissi allora che ci accorgeremo e ci renderemo conto negli anni di quello che abbiamo fatto. È un’affermazione molto attuale, ancora attuale, perché effettivamente ho visto come la città, come l’Italia intera ha festeggiato i 40 anni dello Scudetto, che sono proprio capitati nel maggio di quest’anno».

D. Volpati, in quali squadre avrebbe voluto giocare?
R. «Carlo a dirti la verità avrei voluto arrivare a Verona prima e finire magari dopo, diciamo che dopo è una esagerazione perché ho smesso che avevo 38 anni… Se c’è una squadra in cui io avrei voluto giocare, quella è il Genoa; chissà perché, il Genoa è una squadra che mi ha sempre ispirato. Comunque Genova come città. O Genoa o la Sampdoria. Forse Sampdoria».
D. Come definisce il calcio dei suoi tempi rispetto a quello di oggi?
R. «Diciamo che allora era il campionato, ai miei tempi degli anni ’80, dell’Italia campione del mondo e i più grandi giocatori del mondo giocavano in Italia, per cui diciamo che era la premier league di oggi. In realtà c’era un livello di calcio giocato estremamente alto, che non ha paragoni con il calcio di oggi; e poi c’era una cosa che, attualmente non c’è più perché è stata fagocitata dal soldo e dai denari, l’umanità, era un calcio umano, non dico pane e salame, un’esagerazione, però era un calcio dove esistevano ancora i rapporti sociali e l’umanità».
D. Ci risulta che ha conseguito la laurea in medicina e chirurgia. In quali modi è riuscito a coniugare studi universitari e calcio?
R. «Ecco questa è la domanda che ogni tanto mi faccio anch’io… Perché dato che non sono mai stato un fenomeno; anche a scuola nel liceo io ero nel gruppo e non eccellevo, però ho capito una cosa, che con la volontà si riesce a ottenere risultati che alcune volte l’intelligenza in purezza non è sufficiente».
D. Ritiene che il gioco del calcio possa essere anche un farmaco efficace per qualche patologia?
R.«Tutti gli sport servono a qualsiasi tipo di patologia; non soltanto una patologia di tipo organico, che può essere, che ne so, la salute del cuore piuttosto che dei polmoni; ma soprattutto perché lo sport ti dà la possibilità di un’apertura verso il mondo, verso gli altri e ti insegna a vivere in comunità, che non è una cosa per tutti. Oggi c’è la tendenza ad isolarsi e invece ti obbliga, soprattutto sto parlando degli sport di squadra, ti obbliga la socialità e quindi tu impari a vivere con la gente».








































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