Antonio Di Gennaro: il regista di Verona. Intervista di Carlo Pellegrini

Nella prima metà degli anni Ottanta soprattutto la Juventus e la Roma erano le squadre a contendersi lo scudetto. Ancora oggi sono memorabili gli incontri calcistici tra quelle due protagoniste di quei campionati, che regalavano momenti e azioni veramente indimenticabili.
Invece al termine del campionato 1984/85 fu il sorprendente Verona ad aggiudicarsi lo scudetto.
La squadra scaligera dimostrò carattere e offrì pagine di un calcio limpido e spettacolare.
Il centrocampista fiorentino Antonio Di Gennaro con la sua regia e con i suoi goal importanti fornì un contributo davvero prezioso a quella vittoria storica.
L’ex calciatore gialloblu, oggi celebre telecronista televisivo, ricorda quell’evento straordinario.

D. Di Gennaro, può riassumere brevemente le vicende di quel campionato 1984-85 vinto dal Verona?
R. «Noi partimmo sempre con il primo obiettivo e venivamo da due campionati che avevamo raggiunto la coppa Uefa, due finali di Coppa Italia e, quindi, eravamo una squadra, diciamo, quotata. Quell’anno arrivarono poi due stranieri, Preben Elkjær Larsen e Hans-Peter Briegel, che completarono un organico che era già molto forte. Da lì partimmo. Il nostro obiettivo, come sempre ogni anno, era quello di raggiungere più velocemente possibile i venticinque punti della salvezza, anche se sapevamo che potevamo fare qualcosa di importante, umili ma ambiziosi. Poi è ovvio che strada facendo abbiamo preso la consapevolezza che la squadra poteva giocarsi qualcosa di importante.

D. Era veramente scontata la vittoria della vostra squadra?
R. «No. Non eravamo favoriti anche perché tutti dicevano, tanto caleranno, tanto caleranno… Noi venivamo, ripeto, da anni importanti perché avevamo vinto il campionato di serie B 1981/82, poi due anni avevamo giocato anche per la coppa Uefa, poi c’eravamo classificati quarti, poi ottavi, e, inoltre, avevamo disputato due finali di coppa Italia, purtroppo perse. E quindi avevamo espresso un livello di gioco importante ed eravamo consapevoli di avere una squadra forte. Vincere lo scudetto non era all’inizio preventivato. Strada facendo ci siamo accorti che potevamo giocarcelo con tutti. Abbiamo preso, ripeto, la consapevolezza di essere una squadra forte, pur rimanendo molto umili, perché sapevamo da dove eravamo partiti. I due stranieri completarono un organico che era già forte di suo».

D. Tra i calciatori scaligeri, chi furono le rivelazioni di quel campionato?
R. «Non c’erano giovani emergenti. Eravamo già un gruppo che giocava un campionato di Serie A. I due stranieri dettero un qualcosa di diverso. In quel anni c’erano due stranieri per squadra, ma erano gli stranieri più forti al mondo. Anche i nostri, Elkjær e Briegel, arrivarono con grandi aspettative e dimostrarono di essere i due tasselli che ci mancavano. Briegel, mi ricordo, che l’allenatore Bagnoli lo spostò nella posizione di mediano e fece nove gol in quel ruolo. Elkjær ovviamente poi era un attaccante e insieme a Giuseppe Galderisi completò tutto l’organico. Non c’erano giovani, diciamo, in piano di lancio».

D. Quali furono i momenti più emozionanti di quel campionato?
R. «Mi ricordo il primo step, che fu la partita di Torino contro il Torino disputata il 25 novembre 1984. Vincemmo 2-1 e avemmo anche un pò di fortuna. Garella mi ricordo parò tanto e ci fu qualche palo di troppo e, quindi, ci fu un pizzico di fortuna, che per raggiungere poi determinati risultati non guasta mai. Poi mi ricordo la partita di Udine con l’Udinese. Era il 10 febbraio 1985. Vincevamo 3-0 nel primo tempo che dominammo. Potevamo realizzare anche il quarto goal e ci annullarono un goal valido, insomma dominavamo la partita. Alla fine del primo tempo il risultato era sul 3-1 a nostro favore. L’Udinese rientrò e nel secondo tempo risalì: 3-2 e poi 3-3 in venti minuti. Pensavamo di perdere, invece, poi con due guizzi di Briegel ed Elkjær vincemmo 5-3. Quindi, fu un passaggio importante. Poi credo anche la partita di Torino con la Juventus del 24 febbraio 1985, dove ci mancava qualche elemento. La Juventus andò in vantaggio e io poi pareggiai nel secondo tempo. Se la Juventus avesse vinto poteva ritornare in lotta per lo scudetto. La Juventus quando lotta per scudetto sappiamo quanto diventa temibile! Diciamo che questi tre passaggi, secondo me, furono i più significativi».

D. Quanto incise la figura dell’allenatore Osvaldo Bagnoli?
R. «Fu determinante, perché, ripeto, io, lui, Tricella e Garella, eravamo i superstiti della serie B. Lui era l’allenatore e per lui contava molto la mentalità, soprattutto fuori casa. Ci aveva insegnato e ci aveva inculcato che fuori casa, se ottieni dei risultati, se vinci le partite, se crei, diciamo, la mentalità giusta, la squadra può fare bene. Infatti, diciamo, ci aveva un pò guidato sotto questo aspetto. Poi era un allenatore molto pragmatico, che capiva di calcio; e poi è stato anche per noi, insieme al secondo allenatore, che purtroppo non c’è più, Antonio Lonardi, una figura importante, perché all’epoca non c’erano gli assistenti tecnici, i preparatori, ecc. C’era l’allenatore in prima e in seconda, abbiamo instaurato un rapporto con tutti da creare proprio una grande famiglia.
Bagnoli fu un allenatore anche dal punto di vista umano, nei momenti anche difficili, a livello soggettivo dei giocatori è sempre stato pronto. È stato bravo a tirar fuori da noi le caratteristiche migliori, cioè non soltanto a livello tecnico, ma anche a livello proprio di motivazioni. Per noi fu anche un padre e fu una figura che è stata determinante sotto tanti punti di vista».

D. Quando cominciaste a credere nella conquista dello scudetto?
R. «Mi ricordo che perdemmo in casa con il Torino, poi andammo a Milano e ci mancavano dei giocatori. A Milano abbiamo un pò rischiato perché il Milan poteva rientrare sotto. Credo che il pareggio di Milano, 0-0 con il Milan, ci ha dato un pò… perché con l’era dei due punti e basta, il pareggio era molto importante come media inglese e come sicurezza. Dopo la partita persa con il Torino in casa ci siamo un pò preoccupati e poi pareggiando a Milano con il Milan, diciamo, abbiamo un pò respirato e ci siamo resi conto che bastava poco; e quindi anche se poi col Como in casa non riuscimmo a vincere, però, insomma, la squadra era preparata ormai a vincere».

D. Quanto ha determinato la conquista dello scudetto del Verona nella sua carriera?  
R. «Diciamo per tutti noi vincere a Verona un scudetto fu una cosa, credo, irripetibile. È stato un qualcosa di grande; poi in quell’anno lì sono andato in nazionale, poi dopo due anni ho disputato il campionato mondiale in Messico nel 1986. Per me fu fondamentale. La scelta anche di rimanere a Verona. Io potevo andar via l’anno prima, e non sono andato, e quindi era destino che si dovesse vincere questo campionato e poi è stato un qualcosa di bello per tutti. Mi ha aperto le porte alla Nazionale. Avrò sempre a vita la massima gratitudine ai tifosi, ai miei compagni, all’allenatore e a tutti quelli che sono stati con me. Per me quella vittoria fu un passaggio fondamentale».

D. A distanza di 40 anni quali ricordi le giungono alla mente di quello scudetto?
R. «La partita a Bergamo con l’Atalanta terminata 1-1 e dove si diventò i campioni d’Italia il 12 maggio 1985. Già durante la pre-partita, la sera prima, c’era già un pò’ di fibrillazione. Diciamo che, come disse Domenico Volpati, forse con gli anni ci renderemo conto di quello che abbiamo fatto; sono passati quarant’anni, in effetti, abbiamo fatto qualcosa che credo sia irripetibile nella storia».

D. Ha ancora legami con l’ambiente calcistico veronese?
R. «Io vivo a Bari. Quando siamo stati a Verona, nel maggio scorso, per la celebrazione dei quarant’anni dello scudetto ci hanno fatto una festa sul campo. Siamo andati prima della partita Verona-Lecce e siamo scesi dentro al campo con le sciarpe e ci hanno applaudito. Poi abbiamo fatto il giro del campo stesso. Però non ho contatti con la società. Conosco qualche mio compagno di squadra che è rimasto a vivere a Verona, come per esempio Luigi Sacchetti e Pietro Fanna. A Verona vivono anche mia figlia e mio nipote».

D. Ha chiuso il legame con la sua e la nostra Firenze?
R. «Sono venuto via nel 2003. Vi ritornai nel 1996 dopo l’esperienza di Bari. Ho svolto il ruolo di allenatore. Sono stato il secondo Fatih Terim, poi, nel 2003, sono tornato a vivere a Bari. Firenze è la mia città, è quella, insomma, che mi ha aperto le porte alla carriera che poi, grazie a Dio, ho svolto in maniera importante».

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