Tra finzione e realtà
Loro c’erano. Erano in due.
Cominciò così quella dannata sera.
Ci sono persone che dopo anni da questa vicenda apparentemente modesta ancora ricordano distintamente il fatto, ma solo perché non si erano visti da decenni così tanti poliziotti, volontari della Misericordia, giornalisti, curiosi, preti.
Pareva che tutti fossero stati chiamati per osservare cosa era successo.
La totalità degli articoli scritti all’indomani del fatto furono letteralmente un incubo. Erano gonfi di aggettivi e, alla fin fine, ipocriti.
Era chiaro che chi li aveva scritti aveva seguito piste false, sperando di trovare di lì a poco il favore dei numerosi lettori che avidamente aspettavano sorgesse il sole per correre in edicola in cerca di ulteriori novità riguardo all’episodio.
Ricordo che le mogli, le concubine e le amanti perennemente in fiamme scesero giù in piazza in modo discreto, ma visibile a quei pochi che seppero capire, per dire che erano stanche che i loro uomini, più o meno legittimi, le abbandonassero nel talamo bollente per leggere come una comitiva di pettegole le novità riportate dai giornali del mattino riguardo al noto episodio.
Tutti seppero e lessero che quell’ultima sera, con la valigia fatta e la macchina venduta in tutta fretta all’amica farmacista, lui riuscì a cuocersi sei uova strapazzate.
Trovarono infatti dodici mezzi gusci d’uovo tutti impilati con precisione millimetrica davanti ad una piantina di basilico a fianco del lavandino in cucina. E dopo aver mangiato le uova ci aveva bevuto almeno mezza bottiglia di spuma bionda.
Ed i giornali tutti sottolinearono che era proprio spuma bionda e non magari altro. Qualcuno rise facendo spallucce.
A pensarci adesso nessuno si sorprenderebbe o scandalizzerebbe. Sono cose che sono sempre successe e non vediamo alcun motivo di scandalo.
Però, all’epoca, eccome se lo fu.
Ricordo i titoli dei giornali locali. Quasi pareva si dovesse entrare in guerra. Punti esclamativi, fitti come margherite in un campo di grano, riempivano i giornali dell’epoca. Ricordo c’era la fila fuori dalle poche edicole e tutti leggevano avidamente tuffando gli occhi tra quei fogli profumati di inchiostro fresco.
Qualcuno lesse oltre i titoli sparati come palline di carta dentro le penne Bic smontate ed entrò in chiesa per la prima volta a mettere una candela di fronte alla statua tardo novecentesca di sant’Antonio da Padova.
I giornali indugiavano con morbosità su di lei.
Che era giovane, esile, con piccole mani bianche, unghie limate e dipinte di rosso, mentre il viso era pieno, qualcuno avrebbe detto gonfio, e poi c’erano tante piccole lentiggini che coronavano il suo volto. Che era oltremodo bellissimo. Qualche giornale si era portato avanti e l’aveva definita “piuttosto bella, quasi conturbante”.
Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscerla e di frequentarla, anche a suo rischio e pericolo. Era molto di più di questa definizione un poco facile e forse anche maldestra. Lei aveva tutto. Beveva il caffè senza zucchero e non portava il reggiseno.
Era dannatamente bella, accidenti.
A chi le disse di essere stanco del mondo femminile lei rispose al suo pallido interlocutore, imperturbabile come una pianta di geranio, di crearsi un mondo tutto suo, così sarebbe stato contento, innamorato e forse ridicolo. Averne di donne così. Peccato che fosse così bella.
Lei sapeva che qualche sorta di dispiacere la stava divorando, ma sapeva pure che l’amore estremo è insicuro, maldestro e forse dannoso.
Occorrevano numerose patenti di guida, perché l’amore non è un viottolo di montagna, bensì un’autostrada a dieci corsie, dove ognuno può scegliere quella che preferisce.
Lei quella famosa sera andò da lui e quando si toccarono, mentre lui le stampava un veloce bacio sulla guancia sinistra, si chiese se davvero lo amasse. Lei si prese il bacio ed inghiottì un improvviso groppo di paura.
Lei si mise a sedere eccitatissima. Capì in un secondo di cosa avesse voglia. Di farsi baciare di nuovo, di trovare finalmente pace tra le sue labbra morbide che parevano piccoli palloncini di un rosso incredibile.
«Ti va di camminare?».
A lui non parve vero di uscire.
Lei si ravviò alcune ciocche ribelli e le sue guance erano rosse e gli occhi sfavillanti.
Lui aveva una dimensione epica dell’amore. Per lui tutte le donne erano bellissime, pure quelle intelligenti. Godeva nel dire queste frasi davanti a chiunque.
Sbadigliò.
Quanto a lui, oh, non c’erano dubbi. Si era alzato quasi fosse stato in preda ad un’estasi indicibile.
«Ho sonno. I baci tuoi mi annoiano».
Lui ci rimase piuttosto male.
«Ma tu sei un sogno».
«Lo ero. Poi ho conosciuto te. Mi sono svegliata all’improvviso. Avrei voluto perdermi in te. Poi ho come avuto paura di perdermi dentro di me».
Si mise a sedere all’estremità del divano con lo sguardo fisso davanti allo specchio. Non riuscì a darsi una risposta.
E in un attimo fu libera. Grazie al cielo sentì che ancora respirava. Lei c’era.
«Dov’è andato il tuo cuore?»
«Beh, ti racconterò qualcosa della mia vita»
«Non vorrei ritornare in carcere, grazie. Preferisco non sapere chi eri prima. Il passato mi spaventa, mentre il futuro mi immobilizza».
«Ma io sono mezzo innamorato di te. Voglio fare almeno un pezzo di strada con te».
«Non mi dire un pezzo. O per tutta la vita se no niente».
Era pomeriggio tardo quando erano là fuori, immersi tra la luce ed i colori dell’estate.
Il viso di lei, di uno straordinario color avorio dorato che contrastava prepotentemente contro l’offuscato tramonto, mutò in modo repentino. Si alzò senza nemmeno osservarlo.
Lui giaceva a terra, morto.
Un piccolo foro appena sotto l’orecchio sinistro era tutto quello che registrò il medico legale.
Il caso fu registrato come omicidio volontario.
Lei, prima di entrare in carcere, spedì al diavolo la spuma bionda, si lavò le mani con l’ammoniaca profumata, si accese una sigaretta e andò a riempirsi un tumbler con gin e campari, che lei diceva e scriveva in minuscolo perché erano i suoi migliori amici da una vita intera.
Fu proprio in quel preciso momento che lei avrebbe voluto che qualcuno le prendesse le mani per fare un applauso più forte.
È morta in carcere, abbagliata dalla sua bellezza.
Il sei luglio, anniversario della sua morte, è per chi scrive un giorno di lutto.
Portatele sulla tomba dei ranuncoli. Lei li amava.