di Amleto Spicciani
Finita la guerra, monsignor Simonetti entrò nella leggenda: il suo ricordo, quasi un “mito”, a Pescia persiste tuttora inalterato. Anche perché nel settembre del 1944, come momento culminante della sua lunghissima e generosa presenza, era intervenuto a scongiurare la distruzione della città già decretata dal comando militare tedesco. Eppure, in modo incredibile, al compimento di 42 anni di episcopato pesciatino, tra due grandi guerre e il fascismo, il 24 luglio 1950, soltanto venti giorni prima della morte, giudicato incapace, benché lucidissimo, fu sospeso, “esonerato”, dal suo ufficio episcopale. Perché – mi domando – questa umiliazione in punto di morte?
Naturalmente la documentazione vaticana potrebbe fornirci indicazioni sui nomi di chi si preoccupò di denunciare lo stato di salute del vescovo, ma a mio parere interesserebbe molto di più sapere il perché della faccenda. La nomina fatta, vivente il vescovo, da parte della Curia romana del nostro metropolita, mons. Ugo Camozzo, come amministratore apostolico della diocesi di Pescia, lo sospendeva quindi, ma anche esonerava il Capitolo dei canonici dal diritto di eleggere un vicario capitolare al momento della prevedibile imminente morte del vescovo stesso, e in tal modo soprattutto evitava che si verificasse lo stato di sede vacante della diocesi, evento che si sarebbe verificato con quel decesso.
Poiché un atto così grave di mortificazione del vescovo morente richiede una adeguata spiegazione, mi viene in mente che tale atto potesse essere stato compiuto per il salvataggio della diocesi. Ricordo perfettamente che i vecchi preti temevano la soppressione della diocesi e la unificazione con quella di Pistoia come richiedeva, per le diocesi non capoluogo di provincia, l’articolo 16 del concordato mussoliniano del 1929. Tale articolo però conteneva una clausola, che lo rendeva esecutivo solo quando, per tali diocesi, si fosse verificato lo stato di sede vacante per la morte del vescovo titolare. Era questo il pericolo che nell’estate del 1950 (con un governo democristiano) si temeva? Erano tutti consenzienti sul progetto di salvataggio?.
Questi miei interrogativi sono soltanto delle ipotesi, delle pure supposizioni. C’è però una interessante testimonianza lasciata da monsignor Arturo Romani, il potente cancelliera vescovile del Simonetti (non c’era il vicario generale), probabilmente uno dei responsabili di tutta la faccenda. In un articolo che il Romani scrisse per il ricordo e la commemorazione di mons. Simonetti, intitolato Sulla soglia dell’eternità (in supplemento dell’«Osservatore toscano», 17 settembre 1950), dopo aver descritto, lui presente, il tristissimo incontro tra il nominato amministratore apostolico e il morente Simonetti per la comunicazione della sua sospensione, prosegue raccontando di una successiva visita da lui compiuta, «dopo qualche ora a notte ormai fatta». In questa seconda visita, il Romani racconta: il vescovo «mi vide nella penombra , da una parte del letto, e mi fece cenno di avvicinarmi. Mi prese le mani nelle sue e con voce incerta mi disse faticosamente: “La ringrazio, La ringrazio di quanto ha fatto”».
Monsignor Romani, in tal modo, con questo mesto ricordo, volle giustificarsi con chi sapeva e volle lasciare a noi una traccia interpretativa? Perché non dice il motivo del ringraziamento? «La ringrazio di quanto ha fatto», cioè per il lavoro di Curia svolto generosamente e a lungo; per avere supplito il vescovo infermo in assenza di un vicario generale; e in fine per avere sistemato le cose con l’amministratore apostolico ? Oppure la ringrazio – ma è una mia semplice supposizione – per avere fatto, d’accodo con il vescovo morente, con i canonici della cattedrale, con una parte del clero e forse anche con l’arcivescovo metropolita, i necessari passi per ottenere dalla santa Sede la nomina di un amministratore apostolico, la cui venuta avrebbe impedito la imminente situazione diocesana di sede vacante.









































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