Primo mese di scuola senza cellulari. Stefania Berti

È passato quasi un mese di scuola; le felpe hanno preso il posto delle magliette, l’abbronzatura è scolorita e sono iniziati i primi giri di interrogazioni e compiti. L’estate è già un ricordo lontano, e lo sono anche i cellulari, che da quest’anno, per effetto della Circolare Ministeriale del 16 giugno firmata dal Ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara, non possono più essere utilizzati in classe.

Al mattino, quando i ragazzi entrano in classe, depositano i loro smartphone in piccole cassaforti che poi vengono chiuse a chiave, e le chiavi vengono consegnate ai custodi. Durante gli spostamenti vengono chiuse anche le aule, quindi non c’è pericolo di smarrimenti o furti, tutto avviene con la massima collaborazione del personale coinvolto. Dopo qualche settimana è già possibile delineare un bilancio, ed è positivo.

I primi giorni la novità ha creato qualche malumore; le espressioni dei ragazzi, al momento della consegna, erano abbastanza contrariate, e al termine della mattinata c’era la corsa a riprendere il proprio cellulare, come orde di affamati all’assalto del buffet. Ma è bastato che la nuova pratica andasse a regime che ho assistito a una specie di miracolo: per due mattine di fila, in due classi diverse, a fine mattinata i ragazzi se ne stavano andando senza ritirarli. In pratica se ne erano dimenticati. E questa è stata, senza tema di usare un termine eccessivo, un’emozione.

I ragazzi hanno imparato di nuovo a socializzare, che era uno degli obiettivi dichiarati dal ministro. Lo vedo durante la ricreazione: sono per esempio ricomparse le carte (che non si possono usare a scuola, ma è bello vederle) e le palline fatte con le carte dei panini o i fogli di quaderno avvolti nell’alluminio. Nella mia quarta, ogni giorno giocano a “Schiaccia” in mezzo ai banchi, e sono diventati anche piuttosto bravi, arrivano a un centinaio di passaggi. Ieri ho giocato anche io.

Escono dall’aula e vanno a incontrare altri compagni; era desolante vederli seduti al loro banco con il cellulare in una mano e il panino nell’altra, gli occhi bassi e nessuna voglia di fare due chiacchiere con gli altri lì intorno. Se tardano a rientrare al suono della campanella o rientrano col fiatone va bene lo stesso: significa che erano fuori, dall’altra parte della scuola. Meglio così. Li preferisco in questo modo, e chiudo un occhio sui ritardi.

Anche noi insegnanti lavoriamo più serenamente. Mi ero trasformata in una specie di Cerbero: le tre teste mi servivano per guardare in tre direzioni diverse affinché uno non copiasse la verifica dal cellulare prestato dall’amico della classe accanto e l’altro usasse qualche altro marchingegno – cuffie, orologio – per copiare il compito. Non mi piaceva lavorare così, non fidandomi di nessuno, perennemente all’erta. Lo so che i ragazzi ci proveranno ancora a copiare i compiti: spero solo lo facciano in modo piu romantico, rocambolesco, avventuroso, come facevamo noi. Ricompariranno, spero, i foglietti in miniatura, le fotocopie in scala ridotta, le formule matematiche scritte a penna sugli avambracci o sotto le suole; vorrà dire che i ragazzi sono guariti.

Scherzi a parte, io ogni mattina, quando chiedo ai miei studenti di depositare il telefono in cassaforte, chiedo anche quante nonne quel giorno rimangano senza; ma è semplicemente una battuta, l’impressione invece è che stiano prendendo la cosa seriamente. Forse hanno capito che non si tratta di una misura punitiva, ma pensata per il loro bene: ed effettivamente una studentessa pochi giorni fa mi ha confessato che da quando non ha più con sé il cellulare, che sbirciava continuamente durante le lezioni, mentre noi prof eravamo distratti o girati di spalle, lavora con molta più concentrazione.
Qualcosa per la concentrazione e l’attenzione bisognava fare, e al più presto.

Il rapporto dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha messo in luce che il rendimento scolastico medio è drasticamente diminuito negli ultimi anni, così come i tempi di attenzione dei ragazzi e la sopportazione dello stress e dell’ansia legata allo studio; e io credo che loro stessi se ne rendano perfettamente conto, e abbiano alla fine accettato di sottoporsi a quello che, in definitiva, è un esperimento sociale.