Ezio Gelain, un toscano convinto e adottato. Intervista di Carlo Pellegrini

Il miglior traguardo per un calciatore è quello di giungere a disputare un campionato in serie A o in serie B. Assai ridotto è il numero di coloro che hanno raggiunto i livelli più alti del calcio.
Al suo attivo il difensore Ezio Gelain, veneto di nascita e toscano d’adozione, vanta cinque campionati giocati in serie A e altrettanti in serie B, costellati da promozioni e da prestazioni straordinarie.

D. Gelain, la sua esperienza calcistica iniziò nelle giovanili della Juventus, vero?
R. «Sì. Dopo aver giocato nella squadra del mio paesino, a 15 anni sono passato alla Juventus. I primi due anni li ho disputati negli allievi e un anno nella squadra primavera con l’allenatore Giovanni Bussone».

D. Al termine di quel triennio bianconero passò al Casale
R. «Sì. A quel tempo la Juventus in serie C aveva il Casale come punto d’appoggio; in serie B aveva l’Atalanta e la Cremonese. Erano tutte squadre con le quali la Juventus collaborava molto. Quindi io sono andato nel Casale. Ai miei tempi furono davvero pochi i calciatori che giunsero a giocare nella prima squadra bianconera».

D. Quale maglia vestì dopo quella del Casale?
R. «Dopo il Casale sono andato a Ferrara vestendo la maglia della Spal. Nella Spal in serie B ho trascorso due anni e l’anno successivo sono passato nell’Empoli».

D. Dal campionato 1982-83 ebbe inizio il suo sodalizio con l’Empoli che giunse alla Serie A
R. «Sì. Giunsi a giocare nell’Empoli nel campionato 1982-83 in serie C1 quando sulla panchina empolese sedeva l’allenatore Giampietro Vitali. Vincemmo subito quel campionato. Poi abbiamo disputato tre campionati consecutivi in serie B e poi conquistammo la serie A al termine del campionato 1985-86 con l’allenatore Gaetano Salvemini».

D. Il campionato 1985-86 ancora oggi è considerato per l’Empoli un anno spettacolare, perché?
R. «Sì. A quei tempi il gruppo era molto più affiatato, anche perché durante la settimane, facevamo molte cose insieme. Era molto diverso da oggi. Era anche più facile. Si viveva molto la città, i tifosi… Furono tutti anni magnifici. Anche il primo anno di serie B 1983-84, dopo la promozione dalla serie C1, ci siamo salvati l’ultima giornata. Fu un anno intenso per noi giocatori, però il legame era forte anche con il territorio, con la città e con i tifosi…».

D. Cosa ha significato per lei giocare nell’Empoli?
R. «Per me ha significato tutto, perché mi ha fatto comunque diventare giocatore vero. Quando arrivi a giocare in serie A vuol dire che possiedi qualche determinata caratteristica. Io dopo gli anni di Empoli ho continuato a giocare in serie A nel Cesena. L’esperienza nell’Empoli mi ha consentito di crescere molto. L’ambiente empolese per noi giovani era molto favorevole per la crescita. Potevamo anche sbagliare e non c’era quell’apprensione che ci poteva essere in altre società».

D. L’Empoli di oggi cosa mantiene dell’Empoli dei suoi anni?
R. «Credo che questo discorso della pressione rimanga. Qui a Empoli è il luogo in cui emergono diversi giovani, perché ti danno il tempo di sbagliare, di crescere e i tifosi non ti stanno col fiato sul collo. La società empolese ha bisogno di credere e di investire nei giovani. Credo che questo ambiente favorevole per i giovani sia rimasto. Carlo i tempi sono cambiati. Noi vivevamo la città in modo diverso, ma perché è cambiato il modo di vivere dei giovani ultimamente».

D. Nell’estate del 1988, a ventisette anni, termina il sodalizio empolese e inizia, diciamo, il “secondo tempo” della sua carriera calcistica con l’approdo al Cesena in Serie A
R. «Sì. Fu un bel secondo tempo. Furono degli anni davvero favolosi. A Cesena, come a Empoli, non avevi pressioni e il settore giovanile era molto importante. Mi trovai bene e fui molto valorizzato. Furono, ripeto, anni splendidi. A Cesena purtroppo mi infortunai seriamente al ginocchio e ciò mi indusse a chiudere con il calcio giocato».

D. Quindi all’età di 30 anni concluse la sua carriera calcistica?
R. «Al momento si pensava fosse una cosa di routine. Si pensava che si trattasse del menisco, quindi una cosa risolvibile in qualche mese. Invece avevo la cartilagine del ginocchio devastata. Fui sottoposto ad un intervento chirurgico importante effettuato dal noto professor Paolo Aglietti. Mi rimise per bene. Rimasi fermo per un anno, il tempo per il recupero dall’operazione era quello. Però quando rimani tanto tempo fermo riprendersi non è mai semplice. Molti allenatori iniziarono a far giocare a zona e quindi c’era molto da correre. Non è che non volessi correre. Nella mia carriera ho corso molto anche per qualche compagno… Ripresi a giocare dopo due anni in serie C1 con l’Empoli e non mi più possibile ritornare ai grandi livelli e così decisi di smettere».

D. Praticamente volle chiudere con l’ Empoli nella squadra che lo aveva visto crescere, emergere e dove tuttora vive
R. «Sì. La città di Empoli era nei miei programmi e dove avevo deciso di mettere famiglia. A Empoli avevo gli amici e avevo iniziato a svolgere il ruolo di allenatore nelle giovanili».

D. Quali sono stati i giocatori più difficili che ha marcato?
R. «Ho marcato tutti i grandi giocatori di quegli anni: Maradona, Gullit, Van Basten, Rumenigge, Careca… Ne ho marcati tantissimi. Sicuramente quello che da un punto di vista fisico aveva la “lingua” sotto il piedi fu Gianluca Vialli. Lo avevo già marcato quando giocava in serie B con la Cremonese e io giocavo con la Spal. Furono sempre duelli difficilissimi. Anche fisicamente era veramente forte. Diciamo che con tutti questi grandi giocatori me la sono sempre cavicchiata…».

D. Generalmente un difensore realizza sempre poche reti. Lei ne realizzò una spettacolare.
R. «È vero. Avvenne il 9 aprile 1989 in occasione della partita Cesena-Inter. Col quel goal di testa interruppi l’imbattibilità del portiere Zenga. Non ero un gran colpitore di testa. In quella partita marcavo Aldo Serena che generalmente era lui a realizzare goal di testa, ma in quella partita fui io a realizzarlo di testa. Fu un bel goal».

D. Il calcio di oggi è molto diverso da quegli anni
R. «Era diverso anche per i tifosi. Da bambino sono cresciuto con le figurine e con gli amici… Tutto è cambiato».

D. Secondo lei, a cosa è dovuto questa trasformazione?
R. «Il primo cambiamento si è registrato con l’avvento dei procuratori che hanno consentito alla società di effettuare contratti pluriennali. Ai miei tempi i contratti erano annuali. Al termine dell’annata potevi essere venduto ad altre squadre oppure confermato.
Poi l’inserimento nelle squadre, in un primo tempo, di tre stranieri e poi il loro numero è sempre cresciuto e siamo andati così in difficoltà. Anche i settori giovanili sono andati in difficoltà anche per un aspetto tecnico, perché a un certo punto con l’arrivo della zona “sacchiana” nei settori giovanili tutti volevano fare come Sacchi. Sacchi lo faceva con i calciatori adulti e nelle prime squadre. E invece si è iniziato dai piccini a volere la difesa a zona e a stare uniti, perché la difesa a zona più il livello è basso e più è redditizia. Non c’è la tecnica per superare un reparto. Poi è successo che con la zona nel settore giovanile non si è più insegnato il rapporto palla e avversario, come saltare e marcare un uomo. Siamo stati una quindicina di anni circa che questa cosa non è stata più insegnata. Ora mi sembra che il ritorno ai vecchi schemi ci sia. Ai grandi livelli si vedono che tante squadre giocano con il riferimento.
Il cambiamento del gioco ha consentito di fare arrivare tantissimi stranieri perfino nei settori giovanili e diventa difficile formare dei giovani ragazzi per le prime squadre».

D. Cosa le ha insegnato il calcio degli anni ’80?
R. «Mi ha insegnato quelle determinate cose che poi io ho sempre cercato di trasmettere ai ragazzi che ho allenato. Una delle cose che mi ha insegnato il calcio degli anni ’80 è stato il rispetto dell’avversario. Ai miei tempi giocavamo marcando a uomo e, quindi, avevamo sempre i duelli in campo. Il rispetto dell’avversario ho cercato sempre di trasmetterlo anche i ragazzi che allenavo. Poi mi ha anche insegnato che per arrivare a giocare a certi livelli occorre molta, molta fatica e bisogna allenarsi in continuazione. Queste cose i ragazzi di oggi le devono imparare da subito e devono imparare ad essere professionisti sin da ragazzini».

D. Può descriverci sommariamente la sua esperienza di allenatore?
R. «È stata una bellissima esperienza, perché ho sempre pensato di avere il carattere adatto per stare con i ragazzi. Ho iniziato i primi tre anni ad allenare i giovanissimi dell’Empoli. Un anno facemmo molto bene. Ricordo che perdemmo il campionato, a due minuti dalla fine, essendo stati battuti dall’Inter e fu, ripeto, una gran bella esperienza. Poi ho allenato due anni la squadra primavera e il secondo anno vincemmo il campionato primavera.
Dopo aver allenato la squadra primavera dell’Empoli ho allenato la Rondinella. Non fu una grande esperienza. La squadra proveniva dal campionato dilettanti e c’era più da lavorare per l’organizzazione, anziché per stabilire l’aspetto tecnico-tattico. Al termine del campionato rimasi fermo e, poi, nel 2002, sono andato per tre volte in Romania per allenare la Dinamo Bucarest. Ogni volta rimasi là per quattro mesi. Per due volte ho ricoperto il ruolo di allenatore in seconda. Purtroppo si crearono delle liti con l’allenatore e successivamente lasciai la squadra. Comunque fu un’esperienza favolosa perché avevo tanti giocatori di talento e vederli crescere fu un grande piacere. Rientrai così ad Empoli per allenare la squadra primavera quando la prima era allenata da Daniele Baldini. Dopo Baldini l’Empoli fu affidato all’allenatore Attilio Perotti che avevo conosciuto l’ultimo anno di quando giocavo con il Cesena. Perotti mi volle come suo vice. Non era la mia ambizione fare il secondo e invece fu una bella esperienza. Infatti poi Perotti mi portò con sé prima a Genova, poi a Piacenza e poi a Livorno. A Livorno successivamente fui il vice dell’allenatore Davide Nicola. Vincemmo il campionato di serie B 2012-13 e conquistammo così la serie A».

D. Gelain, secondo lei le partite per un calciatore finiscono o proseguono per tutta la vita?
R. «Per me sono finite. Ho dei compagni con i quali ci ritroviamo a giocare a calcetto, io continuo a divertirmi; alcuni di loro si “scannano” ancora. Per me le partite sono finite. Oggi mi diverto a guardarle. Quando giocavo le partite non finivano. Sette giorni dopo scendevi in campo nuovamente. Se perdevi la sconfitta te la portavi dietro tutta la settimana. Noi difensori si giocava a uomo e quando faceva goal il tuo avversario era come aver avuto una bastonata, andavi con la testa bassa. Anche quando sei allenatore le partite non finiscono. Durante la settimana si lavora per preparare la squadra ad affrontare la partita. È vero che in campo scendono i calciatori e quindi tu dipendi da loro anche se tu dalla panchina sei lì per suggerire e correggere, però lo stress non è poco».

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