Una mattinata piovosa: il clima dovrebbe volgere al buono; invece, è ancora freddo, e mette uggia dentro. L’incedere del tempo è inarrestabile ed è ben visibile sui volti degli amici, dei conoscenti che, per simpatia o affetto, esclamano: “Sei sempre lo stesso!”. E’ una tenera bugia perché lo specchio ti rimanda la tua immagine, e anche se il cambiamento ti sembra lento, quello c’è, costante come questa pioggia noiosa.
Si dice sia necessaria, anzi vitale, ma la volubilità umana non ha limiti: un giorno, sì: una settimana, ma poi… Poi, cominciano i lamenti e le imprecazioni. “Eh, non ci sono più le stagioni di una volta” ci ripetiamo frequentemente, sapendo di dire una fola, di cercare una scusa contro il nostro malumore, contro le cose che non vanno, con l’età.
Non ricordo, da giovane, lamenti del genere; ricordo abbastanza bene, invece, alcune conversazioni tra vecchi (allora si passava da uomini a vecchi senza altri aggettivi) che rammentavano ancora, con un certo stupore, l’inverno del 19.., quello della neve; o l’estate del 19.. per il caldo torrido. Tutto qui, allora quando nemmeno pensavano ai meteo, oggi addirittura ossessivi.
Erano pene gravi perché quelle particolari stagioni, un inverno pesante o un’estate troppo calda, avrebbero inciso sui lavori dei campi, e sul raccolto. Quelle erano sofferenze, dolori che investivano tutta la famiglia con rinunce e sacrifici. Come nell’abbigliamento, quando gli abiti dei fratelli maggiori passavano ai minori, che li indossavano non svogliatamente bensì fieri di sentirsi improvvisamente più grandi, forse più liberi.
Come un mangiare più “leggero”, una dieta vera e propria mentre la fame mordeva sul serio, e il pane non si buttava via, mai! Solo la domenica c’era qualcosa di più “solido”, a tavola: magari i tortellini in brodo, che emanavano profumi di festa. Era, per noi fanciulli, una piccola gioia, sommata alle poche lire per un bastoncino di menta o, in giorni più importanti, un regaletto, un giocattolino di latta, qualche pallina di vetro, il caleidoscopio, magìa tecnologica di quei tempi.
Contentarsi di poco è già mezza felicità.
E piccoli dolori, per una sgridata della mamma, una marachella infantile, una sbucciatura sul ginocchio che faceva sgorgare lucciconi dagli occhi. Aprìle, dicevano, ogni goccia un barile,e quelle lacrime si asciugavano in poco tempo e non lasciavano memoria. Per altri dolori le punture, e non ho dimenticato il dentista: quel rumore del trapano che entrava nella testa me lo ricordo ancora bene.
Poi la crescita; crescita d’età e della società. Un leggero benessere più diffuso, progetti e sogni in parte realizzati, programmi affrontati con una certa sicurezza e fiducia nel futuro. Qui, ora, gioie e dolori di grande spessore, come tutti hanno provato. Distribuiti, magari, a casaccio, colpa, si dice, di un destino rio e baro, o del governo per andare sul sicuro. O di una fortuna sfacciata, lì per lì; ma, quando quella capita tra capo e collo a chi non la sa gestire, non può che portare ad una fine ingloriosa. E’ la sorte della gente comune, quella che sa affrontare, combattere le avversità e le disgrazie con coraggio e dignità, e si trova invece impreparata quando la dea bendata, per sbaglio!, dona un’occasione fino ad allora nemmeno sognata.
E’ l’età di mezzo, comunque, lo spartiacque tra la fanciullezza e la vecchiaia che fa pesare le gioie ed i dolori. Così come all’inizio, verso la fine del cammino, stemperate passioni e voglie, si calma anche la partecipazione alle vicende umane. Quasi non ci toccassero più, le accettiamo, forse per stanchezza, senza quel coinvolgimento viscerale che ci ha accompagnato fino ad ieri. Oggi, una nuova primavera è vista con occhi più deboli e un sorriso appena accennato. E le violette, che tanti anni fa ne coglievi a decine col cuore gonfio di spensieratezza, ora le saluti sempre con affetto, con un calore che scalda per poco.
La bella stagione, il cielo azzurro e i raggi diretti del sole fanno ancora ottimismo, ma la filosofia della vita che hai elaborato negli anni passati non te li fa godere fino in fondo. Ripensi, anche se non vorresti, a come saltavi i cigli e ti arrampicavi come un gatto sugli alberi; a quando, poco dopo, credevi di avere il mondo tra le mani, e adesso non hai più quell’ardimento, quell’allegria contagiosa che quasi ti faceva volare. Ti rimane il ricordo, e il rammarico di quello che sei stato.
Poi, segue la brutta stagione che ti chiude quasi in casa, e ti costringe a veder scorrere la vita dalla finestra: peggio, alla televisione! Sai, lo senti, che le forze non sono più quelle di prima; c’è chi reagisce gagliardamente al peso dei granelli di sabbia che scendono nella clessidra; chi, magari, accetta la nuova situazione con pacatezza, serenamente, rimuginando i ricordi di ieri perché si apra uno scorcio di sereno in questo cielo grigio e triste.
Magari, una passeggiata dove hai lasciato una briciola di te stesso; una foto che ti rimanda a volti e paesaggi amati, e che avevi dimenticato sbadatamente in fondo ad una scatola di scarpe. Qualche notizia simpatica: un saluto da un lontano parente; o un matrimonio del nipote di un amico che vuol farti partecipe della sua felicità, e che ti regala un attimo di gioia. Magari, una gitarella desiderata da tanto, troppo tempo, che ti alleggerisce un po’ del fardello che ti senti non tanto sopra quanto dentro.
E notizie meno simpatiche. Una malattia seria di un conoscente che però dovrebbe evolversi bene; la rottura di un matrimonio (non quello appena sopra!) e le sue conseguenze; la scomparsa di un caro, vecchio amico. Ecco, in queste occasioni si manifesta proprio il passaggio del cambiamento che il tempo ha operato su di noi. La perdita di una persona cara, anni fa, gettava quasi nella disperazione perché incomprensibile e innaturale. Ora, invece, ci fa soffrire ancora tanto ma è scattata, in noi, l’accettazione di una realtà che non possiamo gestire, cambiare.
E le lacrime, prima copiose, ora sono diventate aride, lontane parenti di quei lucciconi infantili che ci preparavano alla vita futura, subito asciugate perché gioie e dolori duravano lo spazio di un battito d’ali di una farfalla. Farfalle che allora ci stupivano, e le inseguivamo, con la delusione cocente, quando le toccavamo, che non potessero più volare.
Ecco, noi, oggi, siamo come quelle. Abbiamo volato su prati e su fiori, goduto delle stagioni più belle, col caldo che non solo era fuori, ma anche dentro di noi. Poi, lentamente o velocemente, qualcosa è cambiato per sempre, senza ragione, senza scopo. In una mattina di piena estate-caldo autunno, ancora liberi e felici, qualcuno ha toccato le nostre ali, e da quel giorno non siamo più riusciti a volare.
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