Fu così che un bel giorno, mentre parlavamo di come va il mondo, nonna mi disse, buttandola lì, che la gente più è felice e più compie azioni malvagie.
Non usò esattamente queste parole, se davvero ve la devo dire tutta, ma insomma il senso che afferrai era più o meno questo.
C’è spesso della verità in certe frasi dette dai vecchi, non perché abbiano per forza il dono della saggezza, per carità, – ho conosciuto certi vecchi farabutti e figli di cani ed io che bestemmiavo Dio la Madonna e qualche santo in particolare, non riuscendo a capire perché tardassero così tanto a farli morire –, no, non è per questo, ma perché i vecchi ne hanno viste troppe e troppe ne hanno combinate e per tutti questi motivi, insomma, hanno tutto il mio altissimo rispetto. Scusate, ma è la verità. La saggezza non c’entra proprio nulla.
Quel giorno, però, ora che dopo tanti anni la memoria mi riporta a galla quella frase micidiale, lì per lì, ci rimasi un poco male.
Oddio, non che fossimo scandalizzati da quelle che tra di noi in casa chiamavamo le “uscite” di nonna. Ritenevo e tuttora ritengo nonna l’espressione più alta uscita fuori dalla nostra famiglia. È davvero un dannato peccato che sia morta a 104 anni dieci anni fa.
Io, poi, figuriamoci, dovrei stare zitto. In questi ultimi dieci anni ne ho combinate talmente tante che non ho più spazio sul petto per appendere le medaglie. Ed il bello è che se tornassi indietro rifarei esattamente tutto quello che ho fatto. Beh, ho sempre la scappatoia della confessione e successiva assoluzione di fronte al prete, che se ne sta lì seduto tutto contrito ed in preghiera, mentre io già medito quale accidente di marachella potrei ancora combinare.
Ma stavo dicendo di nonna. Accidenti se ne avesse da dire oggigiorno, fosse vissuta qualche anno in più. Da una parte però sono contento che sia morta appena qualche mese prima del mio matrimonio numero uno con una splendida monarchica e comunista inglese, tutta seno – ma nonna avrebbe detto “puppe” – e sedere alto – e nonna qui avrebbe detto “culo” – che le sarebbe piaciuta parecchio.
Kate, così si chiamava mia moglie, era davvero uno schianto, tanto che i miei amici pensarono subito che la pagassi un tanto al mese, che so, mille sterline, da versare direttamente sul suo conto corrente che aveva nella filiale della Barclays a Notting Hill.
Accidenti! Non che io sia un’aquila, per l’amor di Dio, ma pagare quella cifra sarebbe stato un puro oltraggio sia per me sia soprattutto per Kate, la migliore cuoca inglese che io abbia mai conosciuto. Glielo dicevo sempre a lei, monarchica ed anglicana di ferro: noi cattolici abbiamo almeno cinque marce in più rispetto a voi poveretti anglicani. Voi potete batterci solo nel roast beef e nel fish and chips. In quel campo siete fenomenali. Per il resto non avete scampo. Cattolici contro anglicani dieci a tre.
Inutile che facciate ora strani versi con la mente e con la bocca, perché, lo so, credete che gli inglesi stiano alla cucina come io sto al pallone, essendo dell’Inter: Kate sfornava certe torte al rabarbaro che ancora oggi me le sogno, giusto per rammentarvi una delle molteplici cose che lei sapeva fare meglio di noialtri.
Lei, poi, era bravina non appena in camera da letto spengeva la luce.
Lei, poi, dannatamente inglese, monarchica e comunista, che voleva correggermi pure quando dicevo “spengere”. Ed io che tra me e me dicevo “boh” ed alzavo le spalle come avrebbe fatto nonna in questi casi. (E qui qualcuno dirà “muoio davvero”, ma non dico chi).
Ho sempre pensato a nonna in tutte queste situazioni strane, perché sapevo che lei era sempre lì con me, al mio fianco, quasi come se fosse mia moglie, ma era ben più di mia moglie, era mia nonna, accidenti!
Kate, forte di un corso in Grammatica e Glottologia italiana all’università per stranieri a Siena, ogni sera si sentiva in dovere di correggermi, dicendomi che dovevo dire “spegnere” e non “spengere”.
Io, per ripicca, le cantavo La locomotiva di Guccini, che non c’entrava nulla col contesto, ma mi piaceva farlo. Mi garbava stare lì, di fronte a questa esagitata monarchica inglese comunista, e gettarle in fronte il frutto del nostro sapere patrio e godevo ancora di più perché Guccini mi dava un formidabile aiuto.
Quanti baci lì a tre metri dal mare a Livorno, mentre io sommessamente le sussuravo le poesie messe in musica di Guccini, traducendole al volo in inglese affinché comprendesse quelle micidiali parole che a me parevano dardi infuocati.
Ero sì interessato e pure parecchio a lei, ma la mia mente non era lì con lei, né stavo baciandola e nemmeno sfiorandola con le mie dita. Dubito anche che fossi lì fisicamente con lei. In quel momento la mia mente vagava lontano alla ricerca di una risposta: si dice spegnere o spengere? Ecco dov’era la mia mente. Sarò sciroccato, decidete voi, ma così è.
Andavano sì bene i baci, le carezze, le dolci parole sussurrate tra il collo e l’orecchio, Guccini tradotto, ma c’era un grande ma. Forte pure io di qualche studio in storia e letteratura medioevale, un po’ in Italia e un po’ nella sua patria, inutilmente cercavo di controbattere che entrambe le forme erano corrette.
Non avevo scampo: però come spegneva (o spengeva, fate voi) la luce in camera da letto nessun’altra mai. E qui mi taccio.
La camera da letto, appunto. Il letto era così formato: una coppia di pancali di legno tenuti stretti alla bell’e meglio con un pezzo di spago che Kate usava per legare il roast beff. Completavano il tutto due materassi orrendi dove io però avevo avuto la furbizia di coprirli con un coprimaterasso matrimoniale pieno di atroci chiazze gialle.
Ora che scrivo del letto non mi viene in mente quando Kate morì.
Era di sicuro d’inverno perché indossavo la mia solita camicia di lana, verde a scacchi rossi, a maniche lunghe. Pioveva. Sì, ricordo che pioveva. Doveva per forza di cose essere d’inverno.
Kate morì, non ricordo se di mattina o di notte, di leucemia fulminante in un letto sudicio che pareva il nostro costruito coi pancali.
Ricordo però soltanto una cosa di quei suoi ultimi momenti.
Volle che le traducessi in inglese La canzone dell’amore perduto di De André. E me lo disse strizzandomi forte la mano e con quegli occhi neri e bagnati che mi parvero implorare amore e pietà. Non so come avesse fatto ad arrivare a questa poesia ma ricordo che gliela tradussi alla svelta e con certi lucciconi agli occhi che pregai Dio che la portasse subito via.
“Fabrizio – queste furono le sue ultime parole – stammi bene a sentire. Guai se ti fai il segno della croce quando mi vedrai sdraiata in quella cassa di legno e guai altresì se accompagnerai il prete al cimitero. Così come ho vissuto da sola così voglio morire da sola. Non voglio che tu mi veda quando vado sottoterra. Dai un bacio al nostro letto e ricordati di dire “spegnere” e non “spengere” come dite voialtri“.
Risi a quelle parole finali che erano un po’ “alla Mari” come mi diceva sempre lei quando leggeva i miei stupidi racconti e ricordo l’infermiera che mi vide uscire ridendo da solo come un pazzo, mentre Kate aveva già chiuso gli occhi per sempre su quel sudicio letto.
P.s. Non ho sbagliato. La frase iniziale di nonna sembrerebbe avere poco a che fare con questo racconto. Ed invece dimostra che contano più le persone che le parole. Ho pensato a nonna tutto il tempo mentre scrivevo e da lì il suo ricordo mi ha portato a divagare un poco, e se ho fatto male, scusatemi, non l’ho fatto apposta. Kate sarebbe d’accordo con me e vi farebbe l’occhiolino.